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Dopo aver studiato storia dell’arte in Inghilterra, Ann Veronica Janssens frequenta la Scuola Nazionale di Arti Visive La Cambre, a Bruxelles. Dalla metà degli anni ’80, sviluppa un corpo di lavoro posto sotto l’egida della sperimentazione, allo stesso tempo visiva e sensoriale, volto a destabilizzare la nostra percezione dello spazio e a rendere la luce non più uno strumento ma un vero e proprio soggetto. Le sue prime opere, i “super spazi”, estensioni di architetture esistenti, come la Villa Gillet a Lione (1989), illustrano la sua volontà di abolire la frattura tra spazio interno ed esterno, e di rendere più fluida la nostra percezione dell’architettura, attraverso la circolazione della luce, che l’artista utilizzerà all’infinito nelle sue diverse possibilità formali, attraverso l’uso di elementi trasparenti (vetro) e riflettenti (specchi); questa materia diffusa le permette di confrontare la luce con il colore, il fumo e lo spazio.

All’inizio degli anni 2000, inaugura una serie di opere che daranno luogo a numerose variazioni: Blue, Red and Yellow e Light Games (2001) si presentavano come ambienti opachi, in cui gli spettatori erano invitati a entrare, trovandosi così immersi in una nebbia colorata. Seguì un’altra serie di nebbie, come Jamaican Color’s + 1 for Mlle Justine (2003) e Mukha d’Anvers (2007). Da allora in poi, la miscela di luce, colori e nebbia ha dato origine a nuove opere con una qualità materiale instabile, tra cui Bluette (2006), una stella blu fatta di fumo e punti luce. Attraverso l’uso della luce, ha sperimentato vari fenomeni: abbagli (Présentationd’un corps rond 2, 2001), bombardamenti luminosi, persistenza retinica, vertigine, saturazione, velocità, luci lampeggianti; Donut (2003), un trombinoscopio luminoso, ne rappresenta un ottimo esempio. Tuttavia, le opere di Janssens non sono attaccate a nessuna forma di monumentalità; al contrario, i mezzi e le forme sono minimi, al servizio di un’opera poetica, che gioca sul confine tra il visibile e l’invisibile.