E subito ho capito che non ero magnifico.

Arriva un momento in cui il dolce della tua benevolenza è un fumo nei polmoni; un peso, una montagna premuta contro la tua guancia. Il mio momento è arrivato a seguito di una crisi di salute mentale, un’implosione che ha lasciato le mie interiora come macerie.

Sono un novellino nella sfera del perdono di sé. Il mio dilettantismo è passato da tempo per un fermo impegno di bontà. Sono anche un cattivo medico, come lo sono i medici; ho cercato segretamente di strappare dal mio corpo ogni osso cattivo. Cosa mi trattiene, vi chiederete? Le ripercussioni delle mie benevolenze. E ora questo, questa tanto attesa realizzazione di ciò che significa chiamarmi persona. (Grazie a Dio).

***

Il titolo di questa lettera è il mio verso preferito di Holocene di Bon Iver, un verso su cui ho passato un’empia quantità di tempo ad ossessionarmi. Mi fa sentire quel vuoto traboccante, senza respiro, che la visione delle stelle nel Nilgiris mi faceva sentire quando ero un adolescente. La giustapposizione di ‘significato e insignificanza’ (come dice lo stesso Justin Vernon) e la libertà che offre. Quella riconciliazione tra il significato e l’insignificanza simultanei della mia persona, e in quella riconciliazione, lo spazio per essere ordinario e umano al 100%.

‘L’hai fottuto, amico, è sulla testa, ha colpito la strada’.

Sono scappato dalla ‘cattiveria’. Non dagli errori in sé, ma dall’essere la persona che ha commesso quegli errori, non dal male in sé, ma dall’essere la persona che ha inflitto il dolore. Anche ora, crogiolandomi nel conforto della mia epifania, è difficile ammettere quella sfaccettatura – quell’aspetto della mia persona – l’autore di quegli errori, senza cedere all’impulso di contrapporlo alle bontà commensurate. Ho passato del tempo dedicato a questa ormai stranissima ricerca apparente di essere una persona esclusivamente buona. Ora ho 25 anni, e mi trovo di fronte alla sproporzionata bruttezza dei miei fallimenti e delle mie mancanze ordinarie. Suppongo che se si chiude qualcosa in una stanza buia, alla fine si trasforma in acido o mostruoso, o entrambi. E dopo essere stato affrontato, sono stato, per molto tempo, incapace di venire a patti con la mia cattiveria senza rinnegarla con lo shock disgustato e l’incredulità di qualcuno a cui è cresciuto un mostruoso terzo braccio alieno durante la notte.

***

Pensando alla speranza come uno spazio d’azione, mi chiedo duramente e spesso oggi, dove sono, chi voglio essere. Suppongo che alcuni momenti della vita siano così vuoti – così potenti, così fertili. E in quegli spazi, quando non sto catastrofizzando, mi chiedo semplicemente. Ad essere onesti, non credo di essere mai stato in grado di accogliere quanto pienamente umano io sia. Suppongo che creare la propria umanità (SI- UMANITA’) da zero sia un esercizio artistico che inizia con il riconoscere l’arazzo, vedere la gamma di colori, e comprendere la verità che i colori sanguinano l’uno nell’altro; che non tutti gli errori sono facilmente cancellati nella tela con la vernice bianca. Suppongo che richieda anche una certa umiltà e il coraggio di guardare la propria bruttezza sgargiante nello specchio senza trasalire; di muoversi verso di essa contro l’impulso di distogliere lo sguardo.

Questa riconciliazione è stata la mia scoperta concettuale del rispetto di sé che ora mi rendo conto non è solo una capacità fantastica di affermare i propri confini. Come scrive Joan Didion nel suo saggio sul rispetto di sé:

Vivere senza rispetto di sé è stare svegli una notte, oltre la portata del latte caldo, del fenobarbital e della mano addormentata sul copriletto, contando i peccati di commissione e di omissione, la fiducia tradita, le promesse sottilmente infrante, i doni irrevocabilmente sprecati per ignavia o codardia o negligenza. Per quanto a lungo lo poniamo, alla fine ci corichiamo da soli in quel letto notoriamente scomodo, quello che ci facciamo da soli. Se ci dormiamo o meno dipende, ovviamente, dal rispetto che abbiamo per noi stessi.

***

Mi viene in mente una poesia che ho scritto nel giugno 2018; voglio condividerla con voi. Se non lo sapessi, l’avrei definita un lavoro personale preveggente. Ma lo so bene: questo conflitto non è nuovo, le lotte recenti hanno solo rinnovato la lotta. (Le interruzioni di paragrafo sono state indicate da barre).

Questa mattina, ho rivolto la mia attenzione

alla mangiatoia per i passeri

(non i piccioni), una campana a vento fuori

dalla mia nuova finestra (della camera dei bambini)

la cui zanzariera

è impolverata di pula./

Questa è

forse la mia proclamazione

d’amore all’universo, o

reclamo di

candore che è mancato,

Io penso

all’onestà della fame,

e al cibo che la sazierà./

Posso spesso fidarmi

di essere una persona migliore,

come

che ora sto lavando la mangiatoia degli uccelli con

le mie mani nude

spendendo sapone e acqua calda e tutto,

rapendo la merda dalla plastica verde

con una spazzola di plastica,

sentendomi

materna e abbondante nei miei sforzi sinceri.

La ciotola d’acqua arancione che conteneva escrementi

congiunse in un giallo scuro, e verde-/

come il muschio sul muro composto

della casa di mia nonna

nella scia di

monsone:

Kozhikode: 673,

morbido ma sgradito-

che galleggia nell’acqua gialla-

che si agita in qualcosa

che non può dissolverlo./

Mi è stata ricordata spesso la mia

arroganza ma chi

non vuole scoprire e

scoprire,

e scoprire le gloriose conseguenze

(ripercussioni)

delle proprie benevolenze-/

certificato persona buona,

certificato più gentile-

certificato simpatico e bello,

migliore, migliore.

‘Migliore persona che abbia mai conosciuto’./

Lo sto riempiendo ora di semi di kang-

la mangiatoia, lavata e asciugata e

pulita-

piena di cibo e risparmio.

La tengo fuori dalla finestra

precariosamente,

se posso aggiungere,

per appenderla;

rischiando la mia vita per minuscoli

passeri

(se posso aggiungere)./

Aspettando,

mio padre ed io,

come ladri,

ancora come statue./

Un passero appare finalmente,

sospettoso, la sua testa che ticchetta

come la mano di un secondo,

1-2-3-4./

mi muovo lentamente,

un’apparizione infantile forse,

grida, più vicina, la pula

che galleggia e va alla deriva verso la rete,

verso di me./

Vedendomi, il mio sorriso

sottile e grazioso solo

come la bocca chiedente di un

predatore,

sbattendo freneticamente

le sue ali, vola. Una tempesta di pula,

che mi lascia senza complimenti

senza ricompensa,/

lasciando la mangiatoia piena

di semi di kang,

vuota e tremante.

***

Ho quasi fretta di confessarti quanto male ho fatto, quanto ho fatto male e torto (probabilmente radicato in una vecchia abitudine di esternalizzare il perdono), di chiederti perdono. Ma suppongo che tu lo sappia già, forse sei sempre stato lì a tenere quella porta aperta per me.

A volte vorrei lamentarmi del fatto che la metamorfosi umana non culmina nella comparsa di belle ali, o in uno spettacolo di piume su un parapetto nel monsone – qualcosa di netto e ovvio. Il processo è stato un fuoco furioso nelle viscere e lunghe notti passate a chiedermi se la terra sarà ancora solida quando mi alzerò dal letto; ma alla fine c’è l’epifania ironicamente elevata che questo è ciò che significa essere una persona, questo significato insignificante.

Dall’altra parte della metamorfosi ci sono io, solo che questa volta sto dicendo “mi dispiace”, e io sto dicendo in risposta, “ti perdono”.

Sono io.