POLITICO Magazine

Dal suo primo giorno in carica nel 1930, Harry Anslinger aveva un problema, e tutti lo sapevano. Era appena stato nominato capo del Federal Bureau of Narcotics – una piccola agenzia, sepolta nelle grigie viscere del Dipartimento del Tesoro a Washington D.C. – e sembrava essere sul punto di essere abolita. Questo era il vecchio Dipartimento del Proibizionismo, ma il proibizionismo era stato abolito e i suoi uomini avevano bisogno di un nuovo ruolo, velocemente. Guardando il suo nuovo staff – solo pochi anni prima che iniziasse la sua caccia a Billie Holiday – vide un esercito affondato che aveva passato quattordici anni a fare la guerra all’alcol solo per vedere l’alcol vincere, e vincere alla grande. Questi uomini erano notoriamente corrotti e disonesti, ma ora Harry doveva trasformarli in una forza capace di cancellare per sempre la droga dagli Stati Uniti.

Harry credeva di poterlo fare. Credeva che la risposta ad una mano debole dovesse sempre essere quella di alzare drasticamente la posta in gioco. Si impegnò a sradicare tutte le droghe, ovunque, e in trent’anni riuscì a trasformare questo dipartimento fatiscente con questi uomini scoraggiati nel quartier generale di una guerra globale che sarebbe continuata per decenni. Riuscì a farlo perché era un genio della burocrazia ma, cosa ancora più cruciale, perché c’era un ceppo profondo nella cultura americana che aspettava un uomo come lui, con una risposta certa e sicura alle loro domande sui prodotti chimici.

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Il jazz era l’opposto di tutto ciò in cui Harry Anslinger credeva. È improvvisato, rilassato, libero. Segue il proprio ritmo. Peggio ancora, è una musica bastarda fatta di echi europei, caraibici e africani che si accoppiano sulle coste americane. Per Anslinger, questa era anarchia musicale e la prova di una ricorrenza degli impulsi primitivi che si annidano nella gente nera, in attesa di emergere. “Suonava”, dicevano i suoi promemoria interni, “come le giungle nel cuore della notte”. Un altro promemoria avvertiva che “riti indecenti incredibilmente antichi delle Indie Orientali sono risorti” nella musica di questo nero. La vita dei jazzisti, diceva, “puzza di sporcizia”.

I suoi agenti gli riferirono che “molti tra i jazzisti pensano di suonare magnificamente quando sono sotto l’influenza della marihuana, ma in realtà diventano irrimediabilmente confusi e suonano in modo orribile”.

Il Bureau credeva che la marijuana rallentasse drasticamente la percezione del tempo, e questo era il motivo per cui la musica jazz suonava così strana: i musicisti vivevano letteralmente ad un ritmo diverso, inumano. “La musica ha fascino”, dicono i loro promemoria, “ma non questa musica”. Infatti, Anslinger prese il jazz come un’ulteriore prova che la marijuana fa impazzire la gente. Per esempio, la canzone “That Funny Reefer Man” contiene il verso “Any time he gets a notion, he can walk across the ocean”. Gli agenti di Anslinger avvertivano che i consumatori di droga erano esattamente così: “Lo pensa davvero”.

Anslinger guardava una scena piena di ribelli come Charlie Parker, Louis Armstrong e Thelonious Monk, e – come il giornalista Larry Sloman ha registrato – desiderava vederli tutti dietro le sbarre. Scrisse a tutti gli agenti che aveva mandato per seguirli e ordinò: “Per favore, preparate tutti i casi nella vostra giurisdizione che coinvolgono musicisti in violazione delle leggi sulla marijuana. Avremo un grande arresto nazionale di tutte queste persone in un solo giorno. Vi farò sapere quale giorno”. Il suo consiglio sulle retate antidroga ai suoi uomini era sempre semplice: “Sparate per primi”.

Rassicurò i membri del congresso che il suo giro di vite non avrebbe colpito “i buoni musicisti, ma i tipi da jazz”. Ma quando Harry venne a prenderli, il mondo del jazz avrebbe avuto un’arma che li avrebbe salvati: la sua solidarietà assoluta. Gli uomini di Anslinger non riuscivano a trovare quasi nessuno tra loro che fosse disposto a fare la spia, e ogni volta che uno di loro veniva beccato, tutti contribuivano a tirarlo fuori.

Alla fine, il Dipartimento del Tesoro disse ad Anslinger che stava perdendo il suo tempo ad affrontare una comunità che non poteva essere frammentata, così lui ridusse la sua attenzione fino a che non si pose come un laser su un singolo obiettivo, forse la più grande cantante jazz che ci sia mai stata.

Voleva portare tutto il peso del governo federale su quella piaga della società moderna, il suo nemico pubblico numero 1: Billie Holiday.

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Una notte, nel 1939, Billie Holiday salì sul palco di New York City e cantò una canzone che era diversa da qualsiasi cosa chiunque avesse sentito prima. Strange Fruit’ era un lamento musicale contro il linciaggio. Immaginava corpi neri appesi agli alberi come un frutto scuro originario del Sud. Qui c’era una donna nera, davanti a un pubblico misto, che si lamentava per gli omicidi razzisti negli Stati Uniti. Subito dopo, Billie Holiday ricevette la sua prima minaccia dal Federal Bureau of Narcotics.

Harry aveva sentito sussurrare che faceva uso di eroina, e – dopo che lei si rifiutò categoricamente di tacere sul razzismo – assegnò un agente di nome Jimmy Fletcher per seguire ogni sua mossa. Harry odiava assumere agenti neri, ma se mandava dei bianchi ad Harlem e Baltimora, questi si distinguevano subito. Jimmy Fletcher era la risposta. Il suo lavoro era quello di arrestare la sua gente, ma Anslinger insisteva che nessun nero nel suo Bureau potesse mai diventare il capo di un bianco. A Jimmy fu permesso di attraversare la porta del Bureau, ma mai di salire le scale. Era e sarebbe rimasto un “uomo dell’archivio”, un agente di strada il cui lavoro era quello di capire chi vendeva, chi forniva e chi doveva essere arrestato. Portava con sé grandi quantità di droga, e gli era permesso di spacciare droga lui stesso, in modo da guadagnare la fiducia delle persone che stava segretamente tramando di arrestare.

Molti agenti in questa posizione si sparavano eroina con i loro clienti, per “dimostrare” che non erano poliziotti. Non sappiamo se Jimmy abbia partecipato, ma sappiamo che non aveva pietà per i tossicodipendenti: “Non ho mai conosciuto una vittima”, diceva. “Ti rendi vittima da solo diventando un drogato”.

Vide Billie per la prima volta nell’appartamento di suo cognato, dove beveva abbastanza alcool da stordire un cavallo e sniffava grandi quantità di cocaina. La volta successiva la vide in un bordello di Harlem, facendo esattamente la stessa cosa. Il più grande talento di Billie, dopo il canto, era imprecare – se ti chiamava “figlio di puttana”, era un grande complimento. Non sappiamo la prima volta che Billie chiamò Jimmy “figlio di puttana”, ma presto individuò quest’uomo che le girava intorno, che la guardava, e le piacque sempre di più.

Quando Jimmy fu mandato a farle una retata, bussò alla porta fingendo di avere un telegramma da consegnare. I suoi biografi Julia Blackburn e Donald Clark hanno studiato l’unica intervista rimasta a Jimmy Fletcher – ora persa dagli archivi che la gestiscono – e hanno scritto ciò che ricordava in dettaglio.

“Infilalo sotto la porta!” urlò. “È troppo grande per andare sotto la porta!”, ribatté lui. Lei lo fece entrare. Era sola. Jimmy si sentiva a disagio. “Billie, perché non ne fai un breve caso e, se hai qualcosa, perché non ce la consegni?” chiese. “Così non cercheremo in giro, tirando fuori i tuoi vestiti e tutto il resto. Quindi perché non lo fai?”. Ma il compagno di Jimmy arrivò e mandò a chiamare una poliziotta per effettuare una perquisizione corporale.

“Non devi farlo. Mi spoglierò”, disse Billie. “Tutto quello che voglio dire è: mi perquisite e mi lasciate andare? Tutto quello che quella poliziotta farà è guardare la mia figa”.

Si spogliò e rimase lì, e poi pisciò davanti a loro, sfidandoli a guardare.

La mattina della prima irruzione, Jimmy prese Billie da una parte e le promise di parlare personalmente con Anslinger per lei. “Non voglio che tu perda il lavoro”, disse.

Non molto tempo dopo, la incontrò in un bar e parlarono per ore, con il suo Chihuahua, Moochy, al suo fianco. Poi, una sera, al Club Ebony, finirono per ballare insieme – Billie Holiday e l’agente di Anslinger, ondeggiando insieme alla musica.

“E ho avuto tante conversazioni strette con lei, su tante cose”, ricorderà anni dopo. “Era il tipo che avrebbe reso simpatico chiunque, perché era un tipo affettuoso”. L’uomo che Anslinger mandò per rintracciare e arrestare Billie Holiday si era, a quanto pare, innamorato di lei.

Ma Anslinger stava per avere una svolta su Billie, che non aveva ottenuto da nessun’altra parte nel mondo del jazz. Billie si era abituata a presentarsi ai concerti così malconciamente picchiata dal marito, manager e a volte pappone, Louis McKay, che dovevano metterle del nastro adesivo sulle costole prima di spingerla sul palco. Aveva troppa paura di andare dalla polizia, ma alla fine fu abbastanza coraggiosa da tagliarlo fuori.

“Come mai devo prendere questo da questa puttana qui? Questa puttana di bassa classe?” McKay si infuriò, secondo un intervistatore che parlò con lui anni dopo la morte di Billie. “Se ho una puttana, prendo dei soldi da lei o non ho niente a che fare con la puttana”. Aveva sentito che Harry Anslinger voleva informazioni su di lei, ed era incuriosito. “Se l’è cavata con troppa merda”, disse MacKay, aggiungendo che voleva “il culo della Holiday nei canali di scolo dell’East River”. Questo, a quanto pare, è stato il fattore decisivo. “Ne ho abbastanza per finirla”, aveva promesso. “La farò così male che se ne ricorderà finché vivrà”. Andò a Washington per vedere Harry, e lui accettò di sistemarla.

Quando Billie fu arrestata di nuovo, fu messa sotto processo. Stava in piedi davanti alla corte, pallida e stordita. “Si chiamava ‘Gli Stati Uniti d’America contro Billie Holiday'”, scrisse nel suo libro di memorie, “ed era proprio così che mi sentivo”. Si rifiutò di piangere alla sbarra. Disse al giudice che non voleva alcuna compassione. Voleva solo essere mandata in un ospedale per poter smettere con le droghe e guarire. Per favore, ha detto al giudice, “voglio la cura”.

Fu condannata invece ad un anno in una prigione della Virginia Occidentale, dove fu costretta a disintossicarsi e a lavorare durante il giorno in un porcile, tra gli altri posti. In tutto il suo tempo dietro le sbarre, non cantò una nota. Anni dopo, quando la sua autobiografia fu pubblicata, Billie rintracciò Jimmy Fletcher e gli mandò una copia firmata. Lei ci aveva scritto dentro: “La maggior parte degli agenti federali sono brave persone. Hanno un lavoro sporco da fare e devono farlo. Alcuni di quelli più gentili hanno abbastanza sentimenti da odiarsi qualche volta per quello che devono fare. . . Forse sarebbero stati più gentili con me se fossero stati cattivi; allora non mi sarei fidato di loro abbastanza da credere a quello che mi dicevano”. Aveva ragione: Jimmy disse alla scrittrice Linda Kuehl che non ha mai smesso di sentirsi in colpa per quello che aveva fatto a Lady Day. “Billie ha ‘pagato il suo debito’ alla società”, ha scritto uno dei suoi amici, “ma la società non ha mai pagato il suo debito con lei”.

Ora, come ex galeotta, le fu tolta la licenza di cabarettista, con la motivazione che ascoltarla poteva nuocere alla morale del pubblico. Questo significava che non le era permesso di cantare in nessun luogo in cui si servissero alcolici, il che includeva tutti i jazz club degli Stati Uniti.

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Un giorno, a Harry Anslinger fu detto che c’erano anche donne bianche, altrettanto famose di Billie, che avevano problemi di droga – ma lui rispose a loro in modo diverso. Chiamò Judy Garland, un’altra eroinomane, a trovarlo. Fecero una chiacchierata amichevole, in cui lui le consigliò di fare vacanze più lunghe tra un film e l’altro, e lui scrisse al suo studio, assicurando che lei non aveva affatto un problema di droga. Quando scoprì che una hostess dell’alta società di Washington che conosceva – “una bella e graziosa signora”, notò – aveva una dipendenza da droghe illegali, spiegò che non poteva arrestarla perché “avrebbe distrutto… la reputazione immacolata di una delle famiglie più onorate della nazione”. L’ha aiutata a disintossicarsi dalla sua dipendenza lentamente, senza che la legge venisse coinvolta.

Harry disse al pubblico che “l’aumento è praticamente del 100 per cento tra i negri”, cosa che sottolineò essere terrificante perché già “la popolazione negra . . . rappresenta il 10 per cento della popolazione totale, ma il 60 per cento dei drogati”. Poteva condurre la guerra alla droga – poteva fare quello che faceva – solo perché rispondeva ad una paura nel popolo americano. Puoi essere un grande surfista, ma hai comunque bisogno di una grande onda. L’onda di Harry è arrivata sotto forma di panico da corsa.

Nel periodo precedente l’approvazione dell’Harrison Act nel 1914 – la legge che per prima criminalizzò le droghe negli Stati Uniti – il New York Times pubblicò una storia tipica dell’epoca. Il titolo era: “I ‘demoni’ negri della cocaina sono una nuova minaccia per il sud”. Descriveva un capo della polizia della Carolina del Nord che “era stato informato che un negro fino ad allora inoffensivo, con il quale aveva una buona conoscenza, stava ‘impazzendo’ in un delirio di cocaina e aveva tentato di accoltellare un negoziante… Sapendo che doveva uccidere quest’uomo o essere ucciso lui stesso, il capo estrasse il suo revolver, mise la canna sul cuore del negro e sparò – “con l’intenzione di ucciderlo subito”, come racconta l’ufficiale, ma il colpo non lo fece nemmeno barcollare”. La cocaina, si sosteneva ampiamente nella stampa di quel periodo, trasformava i neri in hulk sovrumani che potevano prendere proiettili al cuore senza battere ciglio. Era la ragione ufficiale per cui alcuni poliziotti del Sud aumentavano il calibro delle loro pistole. Un esperto medico lo disse senza mezzi termini: “Il negro cocainomane”, avvertì, “è sicuramente difficile da uccidere”.

Harry Anslinger non ha creato queste tendenze di fondo. Il suo genio non era per l’invenzione: era per presentare i suoi agenti come la mano che avrebbe fermato tutti questi tremori culturali. Sapeva che per assicurare il futuro del suo bureau, aveva bisogno di una vittoria di alto profilo, sull’intossicazione e sulla gente di colore, e così si rivolse di nuovo a Billie Holiday.

Per finirla, chiamò il suo agente più duro, un uomo che non correva il rischio di innamorarsi di lei o di chiunque altro.

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Il giapponese non riusciva a respirare. Il colonnello George White, un uomo bianco enormemente obeso, aveva le mani strette intorno alla sua gola e non lo lasciava andare. Fu l’ultima cosa che il giapponese vide. Quando fu tutto finito, White disse alle autorità di aver strangolato questo “giapponese” perché credeva fosse una spia. Ma in privato, disse ai suoi amici che non sapeva affatto se la sua vittima fosse una spia, e non gli importava. “Ho un sacco di amici assassini”, si vantò anni dopo, e “mi sono divertito molto in loro compagnia”. Si vantava con i suoi amici di tenere una foto dell’uomo che aveva strozzato appesa alla parete del suo appartamento, sempre a guardarlo. Così, mentre si metteva al lavoro su Billie, il colonnello White era guardato dalla sua ultima vittima, e questo lo rendeva felice.

White era l’agente preferito di Harry Anslinger, e quando guardò i file di Holiday, la dichiarò “una cliente molto attraente”, perché il Bureau era “in difficoltà” e poteva avere l’opportunità “di darle un calcio”.”

White era stato un giornalista a San Francisco negli anni ’30, finché non fece domanda per entrare nel Federal Bureau of Narcotics. Il test della personalità dato a tutti i candidati su ordine di Anslinger ha scoperto che era un sadico. Salì rapidamente nei ranghi del Bureau. Fece scalpore come primo e unico uomo bianco ad infiltrarsi in una gang cinese della droga, e imparò persino a parlare in mandarino per poter cantare con loro i loro giuramenti. Nel suo tempo libero, andava a nuotare nelle acque sporche del fiume Hudson di New York City, come se sfidasse il fiume ad avvelenarlo.

Era particolarmente arrabbiato perché questa donna nera non sapeva stare al suo posto. “Lei ostentava il suo modo di vivere, con i suoi cappotti e le sue automobili di lusso, i suoi gioielli e i suoi abiti”, si lamentava. “Era la grande signora ovunque andasse”.

Quando lui venne a prenderla in un giorno di pioggia al Mark Twain Hotel di San Francisco senza un mandato di perquisizione, Billie era seduta in pigiama di seta bianca nella sua stanza. Questo era uno dei pochi posti in cui poteva ancora esibirsi, e aveva un gran bisogno di soldi. Insistette con la polizia che era pulita da oltre un anno. Gli uomini di White dichiararono di aver trovato l’oppio nascosto in un cestino della carta straccia accanto ad una stanza laterale e il kit per sparare eroina nella stanza, e la accusarono di possesso. Ma quando i dettagli furono esaminati in seguito, sembrò che ci fosse qualcosa di strano: un cestino della carta straccia sembra un posto improbabile per tenere una scorta, e il kit per sparare eroina non fu mai inserito come prova dai poliziotti – dissero di averlo lasciato sulla scena. Quando i giornalisti chiesero a White di questo, lui arrossì; la sua risposta, notarono, “sembrava un po’ sulla difensiva”.

Quella sera, White venne allo spettacolo di Billie al Café Society Uptown, e richiese le sue canzoni preferite. Non ha mai perso la fiducia nella capacità della sua musica di catturare e persuadere. “Si ricorderanno di me”, disse a un amico, “quando tutto questo sarà passato e avranno finito di tormentarmi”. George White non era d’accordo. “Non ho pensato molto alla performance della signora Holiday”, disse severamente al suo manager.

Billie insistette che la droga era stata messa nella sua stanza da White, e si offrì immediatamente di andare in una clinica per essere monitorata: non avrebbe avuto sintomi di astinenza, disse, e questo avrebbe provato che era pulita e che veniva incastrata. Si fece ricoverare al costo di mille dollari e, secondo il libro di Ken Vail “Lady Day’s Diary”, non ebbe nemmeno un brivido.

Sappiamo che George White aveva una lunga storia di droga sulle donne. Gli piaceva fingere di essere un artista e attirare le donne in un appartamento nel Greenwich Village dove avrebbe corretto i loro drink con LSD per vedere cosa sarebbe successo. Una delle sue vittime era una giovane attrice che viveva nel suo palazzo, mentre un’altra era una bella cameriera bionda in un bar. Dopo che lei non ha mostrato alcun interesse sessuale per lui, l’ha drogata per vedere se questo sarebbe cambiato. “Ho lavorato con tutto il cuore nei vigneti perché era divertente, divertente, divertente”, si vantava White dopo essersi ritirato dal Bureau. “Dove altro potrebbe un ragazzo americano dal sangue rosso mentire, uccidere, imbrogliare, rubare, stuprare e saccheggiare con la sanzione e la benedizione dell’Altissimo? Potrebbe anche essere stato fatto quando ha arrestato Billie per essersi fatto.

Il processo contro Billie andò avanti. “La persecuzione e la pressione mi hanno spinto”, scrisse, “a pensare di provare la soluzione finale, la morte”. La sua migliore amica disse che ciò causò a Billie “abbastanza ansie da uccidere un cavallo”. Al processo, una giuria di dodici comuni cittadini ascoltò tutte le prove. Si schierarono con Billie contro Anslinger e White, e la dichiararono non colpevole. Tuttavia, “era scivolata dall’apice della sua fama”, scrisse Harry Anslinger. “La sua voce si stava incrinando”.

Negli anni successivi al processo di Billie, molti altri cantanti avevano troppa paura di essere perseguitati dalle autorità per eseguire “Strange Fruit”. Ma Billie Holiday rifiutò di fermarsi. Non importa cosa le facessero, lei cantava la sua canzone.

“Era”, mi disse la sua amica Annie Ross, “il più forte possibile”.

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Quando Billie aveva quarantaquattro anni, un giovane musicista di nome Frankie Freedom le stava servendo una ciotola di farina d’avena e crema nel suo appartamento quando improvvisamente crollò. Fu portata al Knickerbocker Hospital di Manhattan e fatta aspettare per un’ora e mezza su una barella; dissero che era una tossicodipendente e la mandarono via. Uno degli autisti dell’ambulanza la riconobbe, così finì in un reparto pubblico del Metropolitan Hospital di New York. Appena le hanno tolto l’ossigeno, si è accesa una sigaretta.

“Qualche maledetto cerca sempre di imbalsamarmi”, disse, ma i medici tornarono e spiegarono che aveva una serie di malattie molto gravi: era emaciata perché non aveva mangiato; aveva la cirrosi epatica a causa del bere cronico; aveva problemi cardiaci e respiratori a causa del fumo cronico; e aveva diverse ulcere alle gambe causate dall’aver ricominciato a iniettare eroina di strada. Dissero che era improbabile che sopravvivesse a lungo, ma Harry non aveva ancora finito con lei. “Stai attenta, piccola”, avvertì Billie dalla sua minuscola stanza d’ospedale grigia. “Mi arresteranno in questo dannato letto”.

Gli agenti della narcotici furono mandati al suo letto d’ospedale e dissero di aver trovato meno di un’oncia di eroina in una busta di carta stagnola. Sostennero che era appesa ad un chiodo sul muro, a un metro e mezzo dal fondo del suo letto, un punto che Billie non era in grado di raggiungere. Hanno convocato un gran giurì per incriminarla, dicendole che se non avesse rivelato il suo spacciatore, l’avrebbero portata direttamente in prigione. Le confiscarono i fumetti, la radio, il giradischi, i fiori, i cioccolatini e le riviste, la ammanettarono al letto e misero due poliziotti alla porta. Avevano l’ordine di proibire a qualsiasi visitatore di entrare senza un permesso scritto, e ai suoi amici fu detto che non c’era modo di vederla. La sua amica Maely Dufty gridò loro che era contro la legge arrestare qualcuno che era sulla lista critica. Hanno spiegato che il problema era stato risolto: l’avevano tolta dalla lista critica.

Così ora, oltre alla cirrosi epatica, Billie andò in astinenza da eroina, da sola. Un medico fu portato in ospedale su insistenza dei suoi amici per prescriverle il metadone. Le fu dato per dieci giorni e cominciò a riprendersi: era ingrassata e aveva un aspetto migliore. Ma poi il metadone fu improvvisamente interrotto, e lei ricominciò a stare male. Quando finalmente un’amica ebbe il permesso di vederla, Billie le disse in preda al panico: “Mi uccideranno. Mi uccideranno lì dentro. Non permetterglielo”. La polizia ha buttato fuori l’amica. “Avevo grandi speranze che potesse uscirne viva”, ha detto alla BBC un’altra amica, Alice Vrbsky, finché non è successo tutto questo. “È stata l’ultima goccia”.

Sulla strada fuori dall’ospedale, si sono riuniti dei manifestanti, guidati da un pastore di Harlem, il reverendo Eugene Callender. Reggevano cartelli con la scritta “Let Lady Live”. Callender aveva costruito una clinica per eroinomani nella sua chiesa, e supplicava che Billie potesse andarci per essere curata e rimessa in sesto. Il suo ragionamento era semplice, mi disse nel 2013: i tossicodipendenti, disse, “sono esseri umani, proprio come te e me”. La punizione li rende più malati; la compassione può farli guarire. Harry e i suoi uomini si rifiutarono. Hanno preso le impronte digitali a Billie sul suo letto d’ospedale. Le fecero una foto segnaletica sul suo letto d’ospedale. L’hanno torchiata sul suo letto d’ospedale senza lasciarla parlare con un avvocato.

Billie non incolpava gli agenti di Anslinger come individui; incolpava la guerra della droga stessa, perché costringeva la polizia a trattare i malati come criminali. “Immaginate se il governo inseguisse i malati di diabete, mettesse una tassa sull’insulina e la spingesse al mercato nero, dicesse ai medici che non possono curarli”, scrisse nel suo libro di memorie, “e poi li mandasse in prigione. Se lo facessimo, tutti saprebbero che siamo pazzi. Eppure facciamo praticamente la stessa cosa ogni giorno della settimana a persone malate e tossicodipendenti”.

Eppure, una parte di Billie Holiday credeva di aver fatto qualcosa di male, con il suo uso di droga, e con la sua vita. Diceva alla gente che avrebbe preferito morire piuttosto che tornare in prigione, ma era terrorizzata dall’idea di bruciare all’inferno – proprio come sua madre aveva detto che avrebbe fatto tutti quegli anni prima, quando era una bambina sdraiata sul pavimento del bordello, ascoltando la musica di Louis Armstrong e lasciando che la portasse fuori da Baltimora. “Era esausta”, mi ha detto uno dei suoi amici. “Non voleva più passarci”.

E così, quando morì su questo letto, con gli agenti di polizia alla porta per proteggere il pubblico da lei, sembrava – come disse un altro dei suoi amici alla BBC – “come se fosse stata strappata dalla vita con violenza”. Aveva quindici banconote da cinquanta dollari legate alla gamba. Era tutto quello che le era rimasto. Aveva intenzione di darli alle infermiere che l’avevano assistita, per ringraziarle.

La sua migliore amica, Maely Dufty, insisteva con chiunque volesse ascoltare che Billie era stata effettivamente uccisa da una cospirazione per farla crollare, orchestrata dalla polizia narcotici – ma cosa poteva fare? Al funerale di Billie, c’erano sciami di auto della polizia, perché temevano che le loro azioni contro di lei avrebbero scatenato una rivolta. Nel suo elogio funebre, il reverendo Eugene Callender mi disse che aveva detto: “Non dovremmo essere qui. Questa giovane donna è stata dotata dal suo creatore di un enorme talento. . . Avrebbe dovuto vivere almeno fino a ottant’anni”.

Il Federal Bureau of Narcotics la vedeva diversamente. “Per lei”, scrisse Harry con soddisfazione, “non ci sarebbe stato più ‘Good Morning Heartache'”.

Questo articolo è un estratto adattato dal libro di Johann Hari Chasing The Scream: The First and Last Days of the War on Drugs, pubblicato da Bloomsbury. www.chasingthescream.com @johannhari101

La fonte completa di questo articolo si trova nelle note del libro.

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