What Sparks Poetry
Mi sono innamorato del linguaggio attraverso l’Hip Hop. Come figlio della fine degli anni ’70 e dell’inizio degli anni ’80, nato e cresciuto a Compton, una comunità in rapido cambiamento, con i postumi del crollo dei movimenti dei diritti civili e del potere nero, diciamo, ho ereditato lo scetticismo dell’idea di “contratto sociale” di John Locke. Naturalmente, non capivo nulla di economia, di politica o di storia, e nemmeno del razzismo sistemico. Sapevo abbastanza per non fidarmi dei politici o dei predicatori. C’era dolore intorno a me; dentro casa mia e nelle strade. Avevo delle voglie, una fame di gioia, un desiderio di fuggire da ciò che mi circondava. Ho studiato la distrazione. Forse il desiderio di distrazione è ciò che ci rende più umani, ma ugualmente vulnerabili e pericolosi. Non vedevo la mia vita rappresentata dai media, a parte occasionali notizie che ritraevano i miei vicini come animali. Non riuscivo ad articolare ciò che mancava. Volevo sentirmi visibile, ma non nel modo in cui un bersaglio è visibile. Tutte le parti di me, l’umorismo, la rabbia, l’erotismo, ho cercato una voce sia esteriore che intima, performativa e di preghiera. Da preadolescente, l’Hip Hop era un vangelo. Mentre mia nonna canticchiava con Mahalia o Johnny Mathis nella stanza di famiglia, io ero sul retro della nostra casa a riascoltare cassette senza etichetta, trasportate a mano attraverso la sala da pranzo della scuola media, con rapper come Egyptian Lover, Toddy Tee o DJ M.Walk, precursori di N.W.A. e Too Short. Discorsi senza fronzoli e disinibiti, reportage di strada. Quelle voci erano “reali”. Discorsi veri, beat da sballo. Erano discorsi privati e pubblici. Crescendo non ero un gran lettore, quindi il mio walkman Sony era il mio bene più caro. Ora, quando rimprovero i miei figli perché passano troppo tempo da soli nelle loro stanze con i loro telefoni, attraverso i loro sorrisi di sbieco, vedo il mio io più giovane che mi fissa.
Pensate all’Hip Hop come al pronipote del Blues, elencando il Black Arts Movement e la Old School Funk come suoi genitori naturali. “Ma Rainey” di Sterling Brown è essenzialmente un poema da concerto. Rainey, la leggendaria cantante blues dei primi del Novecento, è stata oggetto di numerose opere critiche e creative, come Blues Legacies and Black Feminism di Angela Davis, o Ma Rainey’s Black Bottom di August Wilson. Come la narrativa di Zora Neale Hurston, la poesia di Sterling Brown cattura quegli “sforzi spirituali”, il dolore e l’umorismo che continua a plasmare la vita nera. La poesia di Brown attinge alla Black Vernacular Tradition, ricordando le sue influenze, Langston Hughes e Paul Laurence Dunbar. L’attrazione gravitazionale di Ma Rainey è il vero soggetto della poesia. Brown cataloga, mappa e traccia come molteplici comunità nere trovino una singolarità attraverso la voce di Rainey. Considerando i versi di “Anecdote of the Jar” di Wallace Stevens: “La natura selvaggia si alzò fino ad essa,/ E si stese intorno, non più selvaggia”, il pubblico di Rainey, dagli “insediamenti fluviali”, “i cornrows dal fondo nero”, e “i campi di legname”, i “buffoni dai piedi d’oro”, sono tutti commossi fino alle lacrime e resi interi. Naturalmente, Stevens non sarebbe stato invitato a questa festa. Questo è un pellegrinaggio. “Gente da ogni luogo/ a miglia di distanza,/ Da Cape Girardeau,/ Popular Bluff,/ accorre per sentire/ Ma do her stuff”. I sentieri e gli affluenti della vita rurale nera si incanalano nella sua voce, nel suo corpo. Questo non è intrattenimento. La Rainey parla per loro, per quelli che si sentivano indesiderati o non visti. Per Brown, Ma Rainey è un modello per il ruolo dell’artista come figura pubblica. Chiamata e risposta, il cifrario, l’urlo dell’anello, questo poema è una danza di voci: quella dell’oratore, quella di Rainey e quella della folla. Rainey raggiunge lo spirito. Brown scrive, “git way inside us”… “She jes’ catch hold of us”… “She jes’ gits hold of us dataway”. Cosa possiamo aspettarci di più dall’arte? Chi non vuole commuoversi?